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La cucina romana: un mondo oltre la carbonara

Io abito a Roma da 39 anni e qualche mese, non al centro, ma posso dire che Roma è la città che in assoluto ho vissuto di più.

A Roma ci ho fatto il liceo in un periodo in cui alla Stazione Termini gli eroinomani ancora giravano chiedendo le cinquecento lire e poi mi ci sono anche laureata. Ma a quel punto Termini era stata ripulita e quel fascino da “I Guerrieri della Notte” ormai perso.
A onor del vero, essendo cresciuta io in un comune a cavallo tra Roma e i Castelli Romani, ho subito entrambe le influenze: della grande città e dei posti più defilati, più tranquilli, dove i genitori si sentivano più sereni a mandarti al cinema con il treno.

Allo stesso modo, la mia cultura gastronomica è un mix tra i piatti della tradizione romana e le specialità tipiche dei Castelli. Quando sento dire alle persone che non vedono l’ora di assaggiare la carbonara, penso sempre che è un peccato ridurre così il mio territorio. Come se Roma fosse solo il Colosseo, e la cucina romana solo un piatto di pasta.
Io, poi, sono una che ama mangiare il più possibile locale, ovunque mi trovi, senza limitarmi a quello che credo di conoscere di un paese. Per cui questa è una breve lista di cibo e ricordi e posti a volte sottovalutati che hanno contribuito a fare di me quella che sono oggi.

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LA PASTA

D’accordo, le paste romane sono un grande classico, rappresentano la città meglio di altri piatti. Partiamo dal presupposto che la cucina romana è zozza e conviviale tutta, ma la pasta fa ancora più coccola, più calore, più accoglienza. Attenzione però, per quanto rozzi sembrano essere, i primi della tradizione devono essere cucinati a regola d’arte, altrimenti si finisce a litigare in un attimo. Ormai sono famosi i meme in cui si vedono spaghetti con l’uovo crudo messo sopra alla pasta scotta o la panna nella carbonara. Ci sono delle regole che vanno religiosamente rispettate e solo dopo possono essere fatte delle varianti.

La mia preferita è la “cacio e pepe”: ingredienti due, difficoltà mille. La cacio e pepe deve essere cremosa, saporita ma senza farti venire voglia di buttarti dentro una tinozza d’acqua per l’arsura e il pepe deve sentirsi senza coprire ogni cosa. Stranamente a dirsi, un’ottima cacio e pepe io la prendo al Mercato Centrale che si trova all’interno della stazione Termini. Non è un posto caratteristico, lo capisco, ma attenzione a cadere nelle trappole da turisti dove un primo piatto mediocre viene giustificato con una vista spettacolare. Meglio mangiare un buon piatto di tonnarelli cacio e pepe alla stazione e poi proseguire verso la propria meta, piuttosto che mangiare in maniera scadente ma di fronte alla Fontana di Trevi.

Ammetto che il Mercato Centrale, nonostante la qualità, è un luogo di passaggio e poco caratteristico. Ci sono dei posti dove poter assaggiare dei buoni piatti, godendo anche dell’atmosfera da trattoria, camerieri anziani e un po’ burberi e una mise en place alla buona. Se nella cucina romana cercate quell’atmosfera, il consiglio è di andare da Carlone a Trastevere, a Via della Luce. Le porzioni sono abbondanti, il servizio è spartano e un po’ rude. In compenso siete in uno dei rioni storici di Roma, dove fotografare i vicoli stretti lastricati di sampietrini e il graffito in memoria di Ennio Morricone in Via delle Fratte.Questo se avete bisogno di sentirvi nella Roma di Marcello Mastroianni e Anita Ekberg.

Io che qui ci sono cresciuta, però, e la carbonara la fa anche mamma a casa, preferisco altre atmosfere. Per esempio quella ancora da quartiere che ha Centocelle. Centocelle è un altra zona che sta subendo la gentrificazione, ma per fortuna in maniera non così prepotente. I locali negli ultimi anni si sono raddoppiati ma le persone ancora resistono. Un ristorante in cui mi piace andare è Osteria Bonelli e mi piace perché, nonostante una ristrutturazione in chiave più moderna, conserva l’aspetto popolare. Sedute ai tavoli si possono trovare ancora le famiglie e le coppie anziane che vanno per un piatto di pasta e un bicchiere di vino della casa, dove vengono chiamate per nome perché fanno parte della comunità.

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LE INTERIORA

Abbiamo parlato della pasta che fa subito Roma, la carbonara che fa pure Gordon Ramsey. Ma come scrivevo all’inizio, il mondo non si ferma al Colosseo e io giudico un locale se serve i rigatoni con la pajata. Dicesi “pajata” l’intestino del vitello da latte con cui si prepara uno dei sughi della tradizione e che definisce quanto romano è un posto. Un locale che mi piace molto a Roma è Santo Palato, un’osteria condotta da una giovane chef dove si può trovare un’ottima pasta con la pajata. A differenza di primi come carbonara e amatriciana che quasi tutti in casa sanno fare, la pajata ormai è un piatto che si sta perdendo nella cucina casalinga perché le interiora bisogna saperle trattare. Santo Palato non è un locale centrale, non ci sono monumenti da vedere e si trova a Re di Roma che per noi è una fermata della metro più che una zona. Quando ero ragazzina con gli amici ci vedevamo a Re di Roma per andare a fare shopping sulla Tuscolana. Non è un posto di passaggio, tranne se si viene a scoprire che esiste Santo Palato, dove si mangia la trippa, la lingua e il maritozzo. Da qui potete sempre fare una passeggiata digestiva e andare a vedere la Basilica di San Giovanni in Laterano, che nei miei ricordi è la piazza del concertone del primo maggio e del vino caldo che portavi nello zaino.

Dicevamo, le interiora. Non è facile come alimento e capisco che ci sia resistenza a mangiarlo, ma se sei di Roma prima o poi in famiglia hanno cucinato qualche organo. Per esempio da noi a Pasqua è tradizione servire la coratella con i carciofi, che altro non è se non una dadolata di organi dell’agnello. Devo ammettere che la coratella è un piatto che mangio sempre a casa, quindi non saprei consigliare un posto che ho provato in prima persona. Se volete mia sorella fa una coratella molto delicata e gustosa ma ha casa piccolissima.

 

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PIZZA A TAGLIO E SUPPLÌ

Qui si apre un capitolo a parte sulla cucina romana fatto di così tante emozioni e ricordi che meno male che ora la scrittura è in digitale o avrei sciolto tutto l’inchiostro di lacrime. Il perché è presto spiegato: mentre la pasta, le interiora e altri piatti richiedono una preparazione, la pizza al taglio è la madeleine di qualsiasi individuo che sia stato piccolo a Roma. Non dovevi saper cucinare nulla, ma solo entrare in una pizzeria e chiederne un pezzo. La pizza al taglio erano i nonni che entravano al forno e chiedevano “giusto una striscetta per la pupa”. Era mamma che ti dava i soldi per il pane e tu al commerciante chiedevi se ci usciva un po’ di pizza con il resto. Erano i pomeriggi con la comitiva quando facevamo merenda con quella rossa unta che ci sporcava intorno alle labbra. La pizza al taglio. Era la scrocchiarella bianca con il rosmarino negli involucri di plastica che mangiavamo a ricreazione al liceo. Era la pizza bianca calda con la mortadella quando a Pasquetta andavamo a San Policarpo con il Super Tele e le chitarre.

Non c’è pizza al taglio o tonda che sia davvero completa senza il supplì e che sia uno con i chicchi di riso ben separati, il sapore di ragù non troppo acidulo e la mozzarella che fila quando lo dividi per farlo raffreddare. Perché il supplì deve essere bollente, a meno che non sia avanzato dal giorno prima e allora va bene anche così, un po’ colloso.

Se dovessi scegliere un posto dove mangiare un’ottima pizza al taglio, direi sotto casa mia, una delle migliori mai assaggiate, tanto da potersi permettere di rimanere chiusi durante tutto il lockdown e non offrire mai il servizio a domicilio. Credo che siano milionari e abbiano la pizzeria come hobby. D’altronde Ciampino non è così suggestiva da meritare una visita, quindi vi indico qualche locale sparso.

La Boccaccia a Via Leonina nel quartiere Monti, una delle zone della movida romana. Qui ho assaggiato una delle pizze con i funghi porcini più buone della mia vita, che per smaltire richiede almeno una camminata tra i negozietti del quartiere e perché no una salita fino alla Basilica di San Pietro in Vincoli, dove è custodito il Mosè di Michelangelo.

L’Antico Forno Roscioli a Via dei Chiavari a Campo de’ Fiori dove mangiare la loro pizza rossa e passeggiare tra i banchi del mercato storico. Supplì a Trastevere, dove indovinate che fanno? Per me un posto è approvato se sanno realizzare il supplì classico; se lo sanno fare, allora assaggio anche le varianti (tipo la cacio e pepe).

Se invece volete una pizza romana tonda, consiglio 180g Pizzeria Romana nella più popolare Via Tor de’ Schiavi, dove anche i fritti sono gustosi e i dolci che ve lo dico a fare.

 

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In conclusione, quella romana è una cucina ricca. Anche di cuore.

Ci sarebbero ancora tanti cibi di cui parlare e posti che meritano una visita. All’inizio ho citato i Castelli Romani ma senza scendere nel dettaglio perché altrimenti non sarebbe più stato un articolo, ma il Guerra e Pace della gastronomia romana/laziale. Però una cosa la voglio ribadire: pensare che il Lazio sia solo Roma con il Colosseo e la carbonara, significa abbassare drasticamente le possibilità di assaggiare una cucina ricca e variegata, che sa essere sia raffinata nelle rivisitazioni dei giovani chef, sia semplice nei locali caratteristici e non turistici che ancora esistono su tutto il territorio. Nel frattempo spero di avervi mostrato parte di questa varietà, ora non vi resta che venirle ad assaggiare la cucina romana in prima persona.

 

 

Scritto da:

Agnese Iannone
Agnese Iannone
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Classe 1980, dopo una laurea in Scienze della Comunicazione, un master in Brand Management e diverse esperienze nel settore della comunicazione digitale, sta attualmente decidendo cosa fare da grande. Ha un account Instagram che considera uno dei suoi maggiori hobby e che, negli anni, l’ha portata a collaborare con numerose realtà, in particolare nel settore food. Il resto del tempo lo passa a guardare serie tv, giocare di ruolo, leggere e mangiare. Non necessariamente in quest'ordine.

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